Michael Atiyah. “Premio Nobel per la Matematica”

Michael Atiyah

Stante l’assenza di un Premio Nobel per la Matematica – ragione sulla quale mi sono spesso interrogato: forse la si considera troppo astratta e di scarso valore sociale? – quando ho scoperto che il Premio Abel era considerato, fra gli addetti ai lavori, il Nobel della Matematica, mi sono subito messo alla ricerca di un nome rappresentativo, da inserire nella collana “I Dialoghi”.

Mi sembrava infatti giusto e doveroso rendere merito alla matematica, questa disciplina misconosciuta e maltrattata che pure, negli ultimi cinquanta anni, ha costituito l’impianto teorico, vale a dire le fondamenta, di tutta la fisica del macrocosmo e del microcosmo.

Non è stato proprio come consultare l’elenco del telefono. Mi sono letto, profilo per profilo, la vita e l’opera di ogni singolo matematico che aveva beneficiato dell’ambito premio e quello di Michael Atiyah mi è sembrato, da subito, il percorso professionale più interessante. In un certo senso, il più vivace.

E il libro che è nato dal nostro incontro ne è la riprova, perché è uno di quei rari casi in cui un matematico racconta la sua disciplina come una materia per nulla cervellotica ed estremamente creativa. Ricordo che quando ci siamo incontrati, a Edimburgo, era inverno, anzi, qualcosa di più che inverno: faceva freddissimo.

Per tre giorni – tanto è durata la mia permanenza – ci vedevamo, tutti i pomeriggi, in un club piuttosto esclusivo, del quale Atiyah era presidente. Ero rimasto sorpreso dalla rapidità con la quale aveva accettato il mio invito a collaborare per la collana “I Dialoghi”, ma in quei giorni mi resi conto – non senza un pizzico di orgoglio – che anche Sir Michael era rimasto altrettanto sorpreso e impressionato dal numero di personalità che avevo intervistato e, soprattutto, dal loro livello culturale e professionale.

Disse persino, testuali parole, che non poteva esimersi dall’accettare una simile offerta, tanto più che veniva da un editore competente (gli avevo detto che sono chimico).

Si lamentò, infatti, perché la maggior parte di coloro che divulgano scienza non sono scienziati, anzi a volte non sanno nulla di scienza e mancano della precisione necessaria per poter rendere un buon servizio alla causa, ovvero alla divulgazione di argomenti scientifici altrimenti non accessibili a tutti.

Nel corso delle nostre conversazioni cominciavamo col parlare di matematica e finivamo col discutere di politica. Confesso che, da principio, ho avuto qualche difficoltà nell’intenderci, perché il suo accento era molto stretto, ma con un po’ di buona volontà da ambedue le parti, siamo riusciti a capirci alla perfezione. Soprattutto, man mano che andavamo avanti, scoprivamo di avere molti punti di vista in comune.

Lui, per esempio, era insolitamente ben informato circa la situazione politica italiana – ecco, dunque, un matematico che sfata il mito dell’uomo di scienza con la testa fra le nuvole – e ne sapeva abbastanza anche di cosa significhi fare ricerca in Italia. Le sue lamentele non mi giungevano nuove: poco spazio ai giovani ricercatori, pochi incentivi per le nuove ricerche… insomma, sembrava di sentir parlare un italiano!

Discorrere della sua vita, del suo passato, lo ha reso via via più amichevole. È una cosa che mi è capitata di cogliere anche in altre occasioni: quando chiedi a uno scienziato di parlarti non del suo lavoro, ma della sua vita, dei suoi ricordi, di quello che era prima di diventare scienziato, del suo aspetto umano… ecco, allora, è come se improvvisamente si aprisse una breccia. Perché non ci sono abituati. Perché di solito a nessuno interessa sapere che fa un Premio Nobel o un Premio Abel della sua vita privata.

Mentre, a 60-70 anni, anche se sei uno scienziato – o forse soprattutto se sei uno scienziato – ti piacerebbe raccontare come un sogno d’infanzia sia diventato realtà, nel tempo, oppure come imprevisti, incontri e strane scelte ti abbiano portato a vivere quella ebbrezza che è la conoscenza, o meglio, la ricerca della conoscenza.

Così, se il primo giorno lo chiamavo “professore” e il secondo “Sir”, il terzo giorno mi disse:

Tra persone che parlano di scienza e che vogliono fare della scienza un messaggio per i giovani, bisogna chiamarsi per nome. Quindi chiamami Michael”.

Quasi quasi sarei rimasto ancora un giorno o due, se avessimo potuto concedercelo, perché si era creata una splendida reciprocità: io ascoltavo e registravo, ma anche lui – curioso come un bambino – chiedeva, s’informava, proprio come un vero scienziato. Perché ogni vero scienziato è animato dall’intima convinzione che una buona conversazione è l’inizio di una nuova scoperta.