Arno Penzias e il rumore di fondo

Malgrado l’idea di incontrare il Premio Nobel Arno Penzias mi avesse entusiasmato fin dall’istante in cui avevo ricevuto la sua risposta affermativa, alla mia proposta editoriale, il destino volle che, al momento dell’incontro fissato, io non potessi recarmi in California per intervistarlo.

Chiesi pertanto a Mel Goldzband, un mio amico psichiatra che vive a San Diego, la cortesia di sostituirmi. Penzias aveva già ricevuto via mail una bozza delle domande che gli sarebbero state rivolte e, scusandomi per la defezione, ero riuscito anche a strappargli la promessa che ci saremmo visti al più presto, in occasione di uno dei suoi viaggi in Italia.

Avevo scoperto, infatti, che lo scienziato era un assiduo frequentatore del nostro paese e aveva, peraltro, numerosi amici proprio a Roma. È stato durante una di queste sue visite di piacere che lo andai a trovare, in un albergo vicino al Pantheon. La prima intervista, quella condotta dal mio amico, verteva per lo più sugli aspetti autobiografici e sull’esperienza del Nobel.

La seconda, invece, fu molto più tecnica, ma ugualmente interessante. Ci soffermammo, per quasi quattro ore, ad esaminare la scoperta che gli era valsa il Nobel: il cosiddetto “rumore di fondo”.

Arno, con una pazienza e una cortesia che forse non ci si aspetterebbe da uno scienziato di così grande fama, non si dispensò dallo spiegarmi – per filo e per segno – tutti gli enigmi, risolti e irrisolti, del cosmo, chiarendomi non pochi equivoci circa il Big Bang, la nascita e il progressivo sviluppo dell’Universo.

Parlava con semplicità e disinvoltura ed era un autentico piacere ascoltarlo. Mi sentivo un po’ come uno scolaro privilegiato, che può sentire la lezione direttamente dalla voce di chi la scienza l’ha fatta, e non di chi semplicemente la racconta. In quelle ore, ricordo di aver chiaramente pensato: “Ecco, è così che vorrei che si sentissero i miei lettori, testimoni privilegiati”.

Arno Penzias e la scienza ai giovani

Parlare con il massimo esperto di una determinata disciplina – scientifica e non – è un’esperienza intellettualmente indimenticabile. Soprattutto poi, se l’esperto in questione è un uomo per nulla borioso, ma al contrario è ben contento di ascoltare, oltre che di essere ascoltato.

La sua curiosità – elemento devo dire piuttosto comune tra i cultori delle scienze – era pari alla mia. Mi fece tantissime domande: volle sapere del mio background culturale, perché avevo scelto un lavoro che – almeno in Italia – non è certo remunerativo… “La passione e la curiosità” – gli dissi – “è il motore tanto del mio quanto del tuo lavoro”.

Dimostrò un sincero apprezzamento per il mio operato e per l’idea di portare la scienza ai giovani, per portare i giovani alla scienza. Anzi, disse persino che alla sua prossima visita gli avrebbe fatto piacere presentare il suo libro in qualche liceo romano.

Poi, mi diede una folta lista di personaggi del mondo della scienza da contattare per la collana. Più di tutto, mi hanno colpito la sua tranquillità, la sua sicurezza e la serena consapevolezza di aver fatto una scoperta che – per importanza e ripercussioni – si avvicina a una seconda rivoluzione copernicana.

Come io non facevo mistero della mia ammirazione, lui non nascose il piacere di parlare di sé. Ammise di avermi detto cose che mai, prima di allora, aveva confidato ad anima viva.

Forse perché le persone intorno a noi, a volte, tendono a dare tutto per scontato, mentre i giovani (e si riferiva ai nipoti) vanno sempre di fretta: a loro bastano pochi cenni e parole, un riassunto dei fatti, non hanno tempo per farsi raccontare tutta una vita. Il nostro parlare venne interrotto dal ritorno della moglie che, approfittando di una bella giornata, era andata a far compere con un’amica. Ci lasciammo con la promessa di rincontrarci come vecchi amici, tra Roma e la California.