Ad andare in giro per il mondo, si finisce col tornare a casa con un senso di mancanza: è la percezione di ciò che in Italia non si è fatto – e si continua a non voler fare – per la ricerca scientifica e la cultura.
Rammento, in particolar modo, le considerazioni – talvolta amare – che ci si scambiava ogni tanto la sera, davanti a un bicchiere di whisky, con Alfonso Maria Liquori. Alfonso era stato mio insegnante di Chimica fisica all’università, ma poi eravamo diventati molto amici. Fu lui a presentarmi il Premio Nobel per la Chimica Max Perutz, con il quale aveva lavorato ai tempi d’oro del Cavendish Institute di Cambridge.
Suppongo che parte di quell’amarezza gli derivasse dalla consapevolezza di essersi trovato, da giovane, nel cuore pulsante della ricerca scientifica – il Cavendish, appunto – nel luogo che aveva sfornato ben sei chimici laureati Nobel, e nel ritrovarsi, poi, bloccato dalle pastoie quotidiane della burocrazia nostrana.
Anche Perutz disse che era inammissibile far progredire la scienza, impedendo ai giovani di farsi strada. Deplorava, in particolar modo, l’ingiusta propensione a impedire ai giovani ricercatori di firmare le loro ricerche, al più posponendone il nome a quello di qualche professorone che alla suddetta ricerca non aveva neanche preso parte.
Agli anglosassoni non gliene importa niente del tuo ruolo sociale. Sono più interessati al “fare” che non al “dimostrare”. Grazie all’incontro con Perutz ho cominciato a vedere l’Italia con gli occhi di uno straniero e mi accorsi che le critiche erano sempre le stesse.
La fuga di Cervelli
In ognuna della interviste che ho realizzato per la collana “Dialoghi” mi sono sempre riservato, alla fine, una domanda sulla situazione della ricerca scientifica italiana.
Che si trattasse di uno scienziato straniero o dell’italiano “fuggito” all’estero – per riprendere quel tema tanto caro alla stampa nostrana della “fuga dei cervelli”, ma il vero problema è che non solo i nostri fuggono, ma nessuno o quasi, dall’estero, trova in Italia una realtà sufficientemente competitiva e costruttiva per venirci a lavorare e tutti si sono dichiarati concordi su almeno tre punti:
- in Italia, il cattolicesimo rende di fatto irrealizzabile il perseguimento e la crescita di un pensiero scientifico forte;
- gli intellettuali italiani hanno una propensione alla “tuttologia” (cosa di per sé non sempre negativa);
- le istituzioni accademiche italiane sono paralizzate da “baroni, conti, duchi e signorotti locali”, che si guardano bene dal favorire o aiutare i giovani emergenti e le nuove ricerche, ovvero quanto possa turbare lo statu quo acquisito.
Italiani tuttologi
Per tornare brevemente all’accusa di “tuttologia” che ci rivolgono dall’estero, ci tengo a precisare con non lo ritengo un aspetto deleterio in toto. La tuttologia – intesa come sapere un po’ di tutto e parlare un po’ di tutto – diventa uno scomodo vizio quando si lega all’esibizionismo, ovvero alla volontà di comparire mediaticamente sempre e comunque, anche quando si parla di argomenti per i quali non si ha alcuna competenza, a rischio così di veicolare un’idea di superficialità. Un po’ come sta accadendo in questo periodo di pandemia mondiale.
Se invece nella tuttologia vogliamo far rientrare un certo spirito leonardesco a interessarsi un po’ di tutto, cercando all’interno di questo mare magnum connessioni o corrispondenze, ritengo allora che ciò sia uno degli elementi che rende particolarmente creativi gli italiani. Nella ricerca scientifica è un elemento che, anche e soprattutto all’estero, dove vige il principio dell’iperspecializzazione, può tornare utile: perché l’iperspecializzazione talvolta rende miopi alle soluzioni più inaspettate.
Perché non tutti vanno all’estero?
Concordo sul fatto che riuscire a lavorare in Italia – nell’ambito della ricerca scientifica e culturale – è di per sé un buon passaporto per l’estero. Perché se riesci a combinare qualcosa di utile con pochi soldi, strutture antiquate e sovente inadeguate, e a dispetto dell’ostruzionismo dei colleghi e del diffuso cinismo delle istituzioni ministeriali, allora nei paesi dove scienza e cultura sono valori aggiunti hai la strada per metà spianata.
Sorge però spontanea, a questo punto, la domanda: perché non tutti vanno all’estero? All’estero ci sono due principi che regnano sovrani: produttività e competitività.
Se in uno o due anni non arrivano i risultati, se non porti a “casa” finanziamenti perché non sei scientificamente produttivo o potenzialmente tale, se non ce la fai a tenere questi ritmi, queste attese, unitamente al fatto che dalle tue capacità dipende anche la sopravvivenza economica della tua equipe, l’America o l’Inghilterra ti sbatteranno la porta in faccia.
Bisogna dunque sapere con certezza cosa si vuole e a cosa si va incontro, quando si abbandona il proprio comodo letto, anche se dalla coperta troppo corta.
In un incontro, Arthur Vidich mi spiazzò con un suo pensiero. Sosteneva che la situazione accademica italiana non era una ragnatela ordita dai baroni ai danni dei giovani più brillanti, bensì una comoda culla per i giovani meno brillanti e che quando i giovani dopo anni di ordinaria carriera arrivano alla cattedra (per paziente attesa, più che per merito conseguito sul campo) si comportano esattamente come i loro predecessori.
La situazione della ricerca in Italia è quella di un serpente che si morde la coda, nella quale a nessuno – se non ai meritevoli – torna veramente utile un cambiamento drastico e radicale.