Di Mirko Grmek ricordo innanzitutto il viso: largo, con gli zigomi sporgenti, sorridente. Un viso aperto: alla vita, alla gioia. Poi la piccola borsa a tracolla di stoffa, che portava sempre con sé, e nella quale infilava di tutto. La prima volta che c’incontrammo fu a Roma, nel mio ufficio. Io lo salutai in inglese e lui mi spiazzò con un italiano perfetto. Senza inflessioni. Mai un errore o un’esitazione. Parlava anche altre sette-otto lingue, altrettanto bene.
Restammo a chiacchierare per un intero pomeriggio, poi decidemmo di cenare assieme. Al ristorante sapeva come muoversi: quali fossero i piatti migliori e quali quelli da evitare. Passò la serata raccontandomi barzellette – sempre in italiano – davvero esilaranti.
Scoprii che per alcuni anni aveva vissuto e insegnato in Italia, ma la sua cultura non nasceva da questa conoscenza episodica, bensì da un’autentica curiosità per gli usi e costumi del Bel Paese.
Era un uomo dotato di una cultura eccezionale ed onnicomprensiva: non si interessava soltanto di epistemologia della medicina o della storia delle malattie – ovvero i suoi argomenti di studio abituali – bensì anche di politica, economia, letteratura… Leggeva Dante, Machiavelli e altri autori più moderni.
Ascoltarlo era un vero piacere. E anche leggerlo: il suo libro ha raccolto un’ottima eco sui giornali e le vendite sono state incoraggianti. Un mese prima della sua morte mi telefonò da Parigi.
Mi disse che voleva far pubblicare il libro anche da una casa editrice del suo paese d’origine, la Croazia. Chiese se potevo concerne i diritti gratuitamente, perché si trattava di una piccola casa editrice in un paese povero.
Acconsentii senza esitazione. Una settimana dopo m’informò che anche un editore francese era interessato ad acquistarne i diritti per la traduzione, e mi lasciò il nome della persona che mi avrebbe contattato. Fu in quell’occasione che avvertii un’insolita tristezza nella sua voce. Mi disse che gli era da poco morto un figlio, in un incidente stradale, e pensava che la sua vita non aveva più senso. Si sentiva solo, depresso, stanco.
E per giunta era malato, di un male che forse non era così lieve, come diceva in giro. Continuava a ripetere che, stavolta, non credeva di farcela e forse… neanche gli interessava più. Mi domandò se poteva avere un anticipo sulle royalties ed io gli assicurai che avrei provveduto immediatamente.
Nei giorni che seguirono mi capitò spesso di pensarlo. La sua sofferenza mi aveva colpito profondamente, ma speravo che trovasse la forza di uscirne, quella forza che avevo notato in lui quando c’eravamo incontrati la prima volta e mi aveva stordito di barzellette. Lo richiami per salutarlo e per sentire come stava.
Accadde due giorni prima che morisse, ma al momento non potevo immaginarlo. Fu molto gentile. Mi chiese del libro, delle vendite, delle recensioni, di me, del mio lavoro e delle interviste che mi aspettavano. Parlammo del dolore che ti toglie la voglia di vivere, di lottare.
Cercai di incoraggiarlo raccontandogli l’impressione che di lui avevo avuto la prima volta: il suo entusiasmo, l’amore per i viaggi, la sua curiosità verso tutto ciò che è nuovo, il suo distacco scientifico dalla morte e dalle malattie…
Mi ascoltò a lungo e accettò con gratitudine i miei sforzi, ma disse che a volte ci sono emozioni, stati d’animo e sofferenze che ti distruggono più delle malattie. Intuii la gravità del suo male, ma lo salutai con la speranza di risentirlo, anche se qualcosa dentro mi diceva che nulla si può fare, quando un uomo ha accettato ormai l’idea della propria morte.