Federico Zeri, caro professore

Federico Zeri

All’epoca in cui proposi a Federico Zeri di partecipare alla collana “I Dialoghi”, lui stava vivendo il suo momento d’oro: conferenze, presenze televisive, incarichi di prestigio… Mi aspettavo un “mi dispiace non ho tempo” e invece, a pochi giorni dal mio fax, mi telefonò dichiarandosi da subito interessato al progetto.

Disse che non aveva mai provato a raccontarsi e l’idea gli piaceva. Così mi invitò nella sua splendida villa di Mentana, alle porte di Roma: due ettari di ulivi, fiori e piante varie.

Ma quel che più impressionava un ospite non ancora avvezzo alla personalità di Zeri – come me, appunto – era l’atmosfera “sacra” che si respirava nella sua casa. Sì, c’era qualcosa di sacro in quei lunghi corridoi pieni di statue e frammenti di monumenti per lo più di epoca romana.

Corridoi nei quali risuonavano soltanto i miei passi e quelli del custode che, da quando ero entrato, mi precedeva senza ancora aver detto una sola parola. Non nascondo che la cosa mi inquietava anche un po’.

Il peso dell’arte

L’aria, l’odore, che si respirava era davvero particolare, come se tutti quei quadri, stampe e antiche pergamene trasudassero il peso dei secoli che si portavano addosso.

Ma non era come stare dentro un museo: era più intenso, più unico di un comune museo. Ovunque guardassi incontravo libri, fotografie di monumenti, tele ancora prive di cornice o cornici senza tela.

L’ordine era apparentemente casuale, ma qualcosa mi dava la convinzione che c’era una mirata scelta di gusto, anche in quella casualità. Mi accolse a braccia aperte chiamandomi “Caro Professore“.

Non so di dove gli venisse questa idea, ma ogni volta che tornavo a casa sua mi accoglieva sempre così. È stato per questo che abbiamo poi deciso di usarlo come titolo del libro che andavamo costruendo: “Caro Professore” era il titolo giusto per una chiacchierata fra vecchi amici sui mali dell’accademia italiana.

In verità, non eravamo vecchi amici, ma lo eravamo diventati, strada facendo, in quelle venti e passa volte che sono andato da lui, ogni due o tre settimane, per aggiungere un nuovo tassello alla storia della sua vita.

Ci concedevamo al massimo due ore ogni volta: la prima la dedicavamo all’intervista, la seconda, invece, rimanevo con lui mentre guardava la posta, rispondeva al telefono, riceveva esperti che chiedevano di periziare qualche quadro.

A microfoni spenti

Era davvero inusuale per me: divertente e istruttivo, al tempo stesso. Credo di aver imparato di più sul suo conto guardandolo, osservandolo, mentre cercava in un quadro quel segno, quel dettaglio, che gli avrebbe permesso di collocarlo in un preciso periodo storico e in una specifica area geografica e di affermare a quale scuola appartenesse, oltre naturalmente al valore da attribuire a quel dato quadro.

Lì, in quei momenti, vedevo ciò che le parole di un’intervista non possono rivelarti: la passione. Un’autentica passione per il proprio mestiere. L’altra cosa che mi piaceva molto del suo modo di conversare era la spudorata sincerità dei suoi commenti: conosceva centinaia di persone, più o meno note, ma non si faceva certo remora di nasconderne gli aspetti negativi.

Anzi, sembrava provare un particolare gusto nel mostrare l’imperatore nudo. Credo di averlo sentito parlare bene solo di Veltroni, Claudia Cardinale, Renzo Piano e Papa Giovanni XIII.

Quest’ultimo era il suo preferito. Mi disse che lo aveva conosciuto a Parigi, quando Giovanni XIII era soltanto nunzio apostolico. S’incontravano spesso e al futuro Papa piaceva raccontare barzellette, molto divertenti, a detta di Federico Zeri.

Comunque, appena spegnevo il registratore – e fidando sulla mia assoluta discrezione – me ne raccontava di cotte e di crude.

Dalla Chimica all’Arte

Quando a metà dell’opera, gli dissi che avevo iniziato la mia carriera come chimico, qualcosa si sciolse fra noi e cominciammo a darci del tu.

Gli scienziati sono persone di cui ci si può fidare”, diceva. “O almeno, quasi sempre”, aggiungeva. Ma la verità è che anche lui aveva studiato chimica per due anni. Il suo era stato un esordio precocemente interrotto, ma, secondo lui, gli era tornato comunque utile: “Mi ha inculcato un senso profondo dell’organizzazione del lavoro”.

E adesso, improvvisamente, capivo il perché dell’impressione che avevo avuto il primo giorno, ovvero che vi fosse un ordine nel disordine: la sua casa non era un museo, era come un laboratorio di chimica.

L’ultima volta che ci incontrammo per l’intervista, prima di passare alla fase di editing del suo testo, mi feci promettere che sarebbe venuto lui a casa mia, a libro ultimato. E lui me lo promise, ma purtroppo non ve ne è stata la possibilità.

L’archivio di Federico Zeri

L’ho visto proprio due giorni prima che morisse. Stava andando a rinnovare il passaporto e sperava che gli lasciassero quello vecchio perché, diceva, era affezionato a quei timbri come ai suoi viaggi.

Si fermò soltanto qualche minuto, il tempo di confidarmi che – improvvisamente – si era fatto prendere dalla preoccupazione di cosa ne sarebbe stato del suo archivio, di tutto il suo materiale storico e fotografico, ma anche dei quadri, delle statue…

Il suo proposito era quello di affidare tutto a una grande struttura – una fondazione, un’università, un museo – qualcuno che gli versasse trenta milioni al mese per vivere e per continuare le sue ricerche. Ma nessuno voleva offrirgli tanto.

Aveva preso contatti con l’amministrazione di Bologna, con una città tedesca e con un museo svizzero, ma non so quale. Mi disse che probabilmente, alla fine, avrebbe lasciato tutto al Vaticano, anche se era laico. “Dopotutto”, diceva, “il Vaticano è un’istituzione seria e quello che gli si affida almeno rimane intatto”. “Nelle biblioteche italiane invece”, aggiungeva, “hanno la brutta abitudine di strappare le pagine dai libri, per farne dei quadri o non so che altro. Non mi fido delle biblioteche”.

Mi presi l’impegno, in sua vece, di contattare il direttore di un famoso ente americano, ma poi non se ne fece più nulla, perché all’improvviso morì, lasciandomi con la sensazione di aver perso un vero amico, una persona buona, che mi aveva confidato, nell’arco di un anno, i segreti di una vita intera.

Parlare con Federico Zeri mi offriva sempre ottimi spunti e mi piaceva il fatto che s’interessasse, sinceramente, dei miei programmi editoriali, a volte dandomi persino dei consigli. Ho avvertito allora la sua mancanza e continuo ad avvertirla adesso.